The Magical Hospital Tour di Giuseppe Scaravilli

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(prima parte)

… Apro un occhio. Uno solo. Sto uscendo dal coma, è un grande segnale di ripresa. I medici disperavano, e dicevano ai miei: “Questo ragazzo non si sveglia, temiamo che possa non venirne fuori”. Mio padre è presente, è proprio lui a vedere quell’ unico occhio che si riapre, dopo un mese, cioè dopo più o meno una vita a vagare nel nulla da parte del sottoscritto, tra maggio e giugno 2012: adesso lui può finalmente gioire, richiamando l’attenzione di mia madre. In verità io non ricordo niente di tutto questo. Me lo racconteranno loro in seguito. In realtà non potrei neanche definirmi propriamente un “ragazzo”: forse medici ed infermieri mi chiamavano così perché tutti gli altri, nel reparto della sala rianimazione dell’ospedale, erano più anziani. Però mi chiamavano così anche quando ero ancora sveglio, al quinto piano.
A fine gennaio di quello stesso anno ero stato ricoverato d’urgenza all’ ospedale Vittorio Emanuele di Catania: pancreatite acuta. Prima, a casa, avevo improvvisamente sofferto di dolori sempre più lancinanti, che alla fine mi avevano letteralmente messo in ginocchio ad urlare. E sono uno che fa musica, non teatro. Non stavo esagerando: quel dolore al ventre era diventato davvero fortissimo, insopportabile. In un primo momento avevo pensato ad una qualche forma di intossicazione: ero stato ad una festa di compleanno, e, come di consueto, non mi ero lasciato pregare nell’ indulgere nei piaceri del desinare e del bere varie bibite gassate.
Mi era capitato qualche altra volta, ma in questo caso era diverso. Dovevo sedermi, poi alzarmi di nuovo, camminare. E non riuscivo neanche a rimettere. Il problema, molto semplicemente, non era quello. Niente intossicazione: un calcolo (li chiamano così: forse perché amano “calcolare” se e quando farti fuori) aveva ostruito non so quale condotto interno, ed il pancreas era andato “in tilt”, prendendo allegramente a divorare se stesso invece che il cibo assunto. Un problemino da niente che qualche decennio fa usava la cortesia di mandare all’altro mondo i malcapitati dieci volte su dieci. Oggi tre volte su dieci, stando a quello che mi riferisce un chirurgo in pensione amico di famiglia. La sera in cui sto male sul serio viene lui a visitarmi a casa: mi fa stendere sul divano della cucina, mi visita, quindi sollecita papà a portarmi subito al Pronto Soccorso dell’ospedale Vittorio Emanuele di Catania.
Viene con noi anche mio fratello Alessio, che mi incoraggia dicendomi che mi metteranno subito “a nuovo”: nessuno immagina minimamente l’odissea che mi aspetta. Tanto meno il sottoscritto. Del resto non avevo mai sofferto di niente. In passato andavo in farmacia solo per prendere i tappi per le orecchie e qualche pillola, in entrambi i casi solo per dormire meglio la notte. E soprattutto, non avevo mai avuto dolori che potessero indurmi a farmi visitare da qualcuno, a darmi almeno un campanello d’allarme. Di solito le cose vanno così.
Come era capitato a mio nonno (mio omonimo) e, più di recente, a mio cugino Ivan. Il nonno era diventato tutto giallo (!), mentre il cugino aveva accusato forti dolori. In questi casi, è sufficiente sottoporsi ad una piccola operazione, ed ecco che i calcoli non ci sono più. Solo due o tre giorni in ospedale, e tutto si riduce ad un vecchio ricordo. Non nel mio caso, però. Quando l’equipe medica stabilisce che bisogna operarmi, decidiamo di trasferirci al nuovo ospedale Garibaldi, perché sia un certo professore, specializzato in casi delicati come il mio, ad occuparsi dell’intervento. Andiamo con l’ambulanza. E anche questa si rivela una bella sofferenza! Del Vittorio Emanuele non ricordo molto, ma per un po’ di giorni ci sono rimasto. Una volta una dottoressa, che ricordo come una bella ragazza che portava gli stivali sotto il camice bianco, mi spingeva sulla barella (quella con le ruote) insieme ad un’infermiera. Entrambe mi trasportavano quasi correndo, scherzavano e ridevano come bambine, senza pensare alla “gerarchia” o a cose del genere. Rischiando anche di sbattermi di qua o di là. No, non stavo bene, eppure quella volta mi sono divertito. Credo sia stato il momento più simpatico di quello sbiadito periodo, prima di cambiare ospedale. Al Vittorio Emanuele devo anche essere stato sedato. Fatto sta che ricordo di aver sognato di essere da solo su un battello, in alto mare, l’atmosfera era tranquilla, poi però l’atmosfera è cambiata, ed io ho rotto tutto. Non so bene cosa, nel sogno, ma nella realtà ho strappato via dalle braccia tutti i cerotti e gli aghi delle flebo. Non sarei il tipo incline a sfuriate di questo tipo, ma credo che questo sia successo davvero. Ricordo un infermiere che si lamentava, sorpreso, ripetendo (in dialetto siciliano): “Ma guarda cosa ha combinato”…
All’ospedale Garibaldi Nesima rimango coricato per un mese, al quinto piano, prima di poter fare l’operazione al pancreas: non so in che senso,   ma il mio corpo doveva essere preparato prima all’ intervento e dovevo aspettare. Avevo altri compagni di stanza. Ma nel tempo ne avrei avuti tanti, che non ricordo più chi e quanti fossero i primi, se non in maniera molto vaga. Alla fine tutti venivano dimessi, andavano via, venivano sostituiti da altri. Io invece no, sono rimasto lì per mesi, per i motivi che spiegherò meglio. E dunque avevo finito ormai per essere parte dell’arredamento: c’erano gli armadietti, le poltroncine, la tv, il crocifisso di fronte a me… e c’ero io. Anche con gli infermieri avevamo ormai fatto amicizia: ci chiamavamo per nome, e me li ricordo un po’ tutti. Enzo e Linda lavoravano sempre in coppia: stranamente lui non portava il classico camice bianco, ma una maglietta nera, coi muscoli in evidenza, ed un fisico asciutto. I capelli erano bianchi e corti, aveva famiglia, ma era ancora giovane. Organizzava pure serate in discoteca: decisamente un contesto diverso, rispetto a quello ospedaliero!
Mi opero il giorno dopo la morte di Lucio Dalla. Questa triste notizia non mi aveva messo esattamente di buon umore, e l’operazione in sé sarebbe stata comunque estremamente delicata. Per dirla tutta, circa 30 anni fa era mortale dieci volte su dieci. Oggi tre volte su dieci. Eppure non avevo paura. Si scendeva in sala operatoria venendo trasferiti sopra un altro lettino più piccolo, con le rotelle. Praticamente nudi, a parte un camice di sottilissima plastica trasparente verde. E anche con qualcosa in testa (una cuffietta, o qualcosa del genere) sempre verde. Mi hanno “posteggiato” in una stanza, al caldo, e stavo piuttosto scomodo. Dovevo avere delle cinghie che mi trattenevano, ed anche la flebo addosso: in pratica non vedevo l’ora che si decidessero a farmi quell’accidente di intervento!
Finalmente è il mio turno, sono nella stanza nella quale mi faranno un bel taglio, per asportare pancreas e cistifellea: quest’ultima con tutti i suoi dannati calcoli all’interno. Sorpresa… l’anestesista è un compagno del Liceo! Anche l’altra persona che è lì mi conosce perché è di Belpasso, il paese dove vivo. Ma anche e soprattutto per via dei Malibran, la mia band dal 1987. E considerato che all’intervento assisterà anche Roberto, il medico mio ex compagno di banco, potrebbe definirsi una bella rimpatriata! Certo, se le circostanze fossero diverse, dal momento che, ridendo e scherzando, sto per giocarmi la pelle (un altro mio coetaneo siciliano, in quello stesso periodo, si sottopone allo stesso giochetto e non ne esce vivo). La siringa per l’anestesia mi sembra enorme e mi fa anche un po’ male. Naturalmente, poi, non ricordo più niente. Mi aprono e quindi mi ricuciono. Ed io mi ritrovo nella stanza del mio reparto al quinto piano. Non avverto alcun dolore. Né sento i punti che “mi tirano”, come sentirò dire ad altri. Con il tempo questi punti spariranno, e poi le “graffette” le rimuoverà un infermiere con barba e codino (che mi ricorda tanto Carmelo, il fratello Di Jerry, il chitarrista del mio gruppo).
Mi accorgo che mi hanno rasato il petto. In seguito la stessa sorte toccherà a barba e capelli, che portavo lunghetti. Ma questo per un problema successivo, che racconterò in seguito. La dottoressa “capo” del reparto a volte è spigolosa, in altre occasioni ha qualche slancio più affettuoso (?).
Non si capisce bene che tipo è, in effetti: riceve telefonate al cellulare solo da sua madre. Va bene, ma in fondo chi se ne frega? In ogni caso mi invita sempre a bere due bottiglie d’acqua al giorno (!) e a camminare di più. Io non riesco a fare solo un po’ di entrambe le cose. Posso “deambulare”, ma a fatica. E devo tirarmi dietro l’asta con le rotelle che sostiene le flebo. Io la chiamo “l’albero di Natale”. La mia, poi, sembra bloccata, rispetto a quella degli altri, le rotelle non girano bene. Anche persone anziane, nella mia stanza, fanno su e giù di continuo con quell’affare, volitive. Ma io non ci riesco. Cammino molto lentamente.
E, soprattutto, quando stacco la testa dal cuscino, è come se dei cavi rimanessero su quest’ultimo, ed altri dietro la mia testa: così non sto bene, fino a quando, coricandomi di nuovo, non permetto a questi cavi (immaginari) di connettersi di nuovo tra loro. Non so a cosa sia dovuta questa sensazione, ma è così. Papà e mamma (spesso insieme a mio fratello Alessio) vengono a trovarmi ogni giorno, sia a pranzo che a cena, con la pioggia o con il caldo. Con papà al mio fianco qualche passo lo faccio, sempre tirandomi dietro l’asta con le flebo attaccate. Ma la cosa è talmente rara che, quando mi vedono in piedi, le infermiere mi tributano un sentito applauso. Quello che chiamo “l’albero di Natale”, con tutte le flebo attaccate, devo tirarmelo dietro anche in bagno.
Rimango al Garibaldi fino all’ultimo giorno del marzo 2012. Due mesi mi sono già sembrati una vita, ma, ahimè, il bello (si fa per dire) deve ancora venire. Al momento rientro a casa sulle mie gambe, in macchina, con la famiglia al completo. Salgo le scale a fatica e come “bentornato” rimetto in un sacchetto di plastica appena entro. Sono stati fatti dei lavori, cambiati gli infissi, e anche la mia stanza è un po’ diversa. Sempre con le pareti azzurre, comunque, ma in parte ritinteggiate. Anche alcuni dei manifesti alle pareti sono stati spostati. Comunque “home sweet home” finalmente! Ciò nonostante, non può certo dirsi che io stia bene: l’ospedale sembra un ricordo da lasciarsi alle spalle, ma cammino un po’ a fatica, e ho bisogno di sdraiarmi sul letto in continuazione. Per salire le scale mi aiuto con la ringhiera, e anche quando faccio la barba devo sedermi a riposare almeno una volta. Neanche stessi scalando l’Everest! Trascorro a casa tutto il mese di aprile ed i primi giorni di maggio. A fine aprile riesco a suonare la chitarra elettrica, con Alessio alla batteria. Temevo peggio, perché le dita sembrano incastrarsi un po’ tra loro. Ma Alessio trova che vado bene. E’ presente anche Jerry, chitarra solista dei Malibran. Suoniamo insieme con questa band di progressive rock dal 1987, e abbiamo pubblicato otto dischi ed un dvd antologico.
Lui però è solo in visita con il fratello Carmelo, senza strumenti, e loro due sono il nostro pubblico. Facciamo pezzi del disco “Trasparenze” (lavoro più mio che del gruppo, in verità’), e secondo Carmelo sembra che non manchi niente, anche se siamo solo in due a suonare. La cosa mi conforta, e già si parla di fare una prova “vera e propria” da Jerry, che ha una sala apposita.
Purtroppo le cose non andranno così. …. Fine prima parte.

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