The magical Hospital Tour 2 di G. Scaravilli

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seconda parte  …  Il giorno del Primo Maggio 2012 lo trascorro a casa dell’amico Ignazio, ma non riesco a gustare tutte le cose buone che ci sono (ahimè!”, non riesco proprio a mangiare niente). Negli ultimi giorni il ventre mi si è inspiegabilmente gonfiato, e cammino come più o meno una donna incinta. Così, mentre gli altri (grandi e piccoli) giocano allegramente sul prato, dopo pranzo, io me ne sto seduto in un angolo all’ombra, e poco dopo mi faccio accompagnare a casa. Collasso all’istante sul letto e mi addormento. No, decisamente non sto bene. Passo il resto del tempo a leggere nel terrazzino che abbiamo sotto le scale. Anche se è aprile, fa fresco, ed io me ne sto coperto e allungato sopra una sdraio, godendomi, se non altro, gli alberi ed il verde che abbiamo da noi. Un’altra cosa, rispetto al bianco “ospedaliero”. Riesumo anche un po’ di fumetti da leggere: per circa dieci anni, fino al 1988, ne disegnavo io stesso, rilegandoli in volumi. L’ultimo era la storia dei Led Zeppelin. Per il resto si trattava per lo più di racconti di avventura. A volte trasponevo film o racconti di Edgar Allan Poe. In seguito, però, avevo smesso sia di realizzare che di leggere fumetti, se non sporadicamente. Così questa “riscoperta” dell’aprile 2012 era stata una sorta di salto indietro nel tempo. A proposito di Poe, ho ancora un libro di Carmen Consoli che lei mi aveva prestato tanti anni fa. A quei tempi ci frequentavamo: suonavamo insieme a casa sua, prendendo le pizze, io andavo ai suoi concerti con la sua band (i “Moondogs”), mentre lei veniva a vedermi coi Malibran, durante i primi anni ’90. Da quando è diventata una cantante famosa a livello nazionale, però, ci siamo persi di vista. E quel libro coi racconti di Edgar Allan Poe non sono ancora riuscito a restituirglielo! Lei amava il blues e lo cantava con una voce sorprendente, quasi da nera americana. Soprattutto considerato il fatto che all’epoca aveva solo 16 o 17 anni, e che aveva un fisico davvero minuto. Sembrava impossibile che quella voce fosse la sua. Non amava il progressive, ma, per qualche motivo, apprezzava molto i Malibran. Probabilmente perché allora avevamo un sound molto rock, potente, pieno di passione. Facevamo anche spettacolo sul palco, divertendoci.
Come detto, ero rimasto in ospedale fino alla fine di marzo 2012. Due mesi che sembrano un’eternità. Dal momento che fatico ad alzarmi dal letto, un medico mi chiama scherzosamente (senza riuscire a farmi ridere più di tanto, in verità) “sacco di patate”. E’ amico e collega di quel mio ex compagno di banco, Roberto, patito dei Pink Floyd (li vediamo assieme a Roma nel 1988) e medico anche lui. Ma, come detto, ad aprile sono a casa, e l’ospedale sembra un ricordo ormai alle spalle. Però continuo a muovermi a fatica, e, ad un certo punto, il ventre mi si gonfia sempre più. Così torno al Garibaldi (ci andavo comunque ogni lunedì a fare dei controlli) e con l’assistenza di Roberto, verifichiamo che bisogna intervenire per tirare fuori questo liquido che mi appesantisce. La cosa in sé si rivela poca cosa: mi tirano fuori questo liquido dall’esterno, con un tubicino che va a finire in una sacca, che man mano si riempie. E allo stesso tempo io mi “sgonfio”, com’è ovvio. Dunque sono anche contento: tornerò come prima, e mi avvierò alla guarigione completa entro l’estate! Tutti gli infermieri mi chiedono che ci faccio di nuovo lì in ospedale. Ricevo la telefonata di un amico, mentre sono a letto. Quando la telefonata finisce, vedo con una certa sorpresa che ho riempito due sacche di questo liquido: sono come due grandi palloni trasparenti, che l’infermiera deve portare fuori trascinandoli per terra, perché da sola non riuscirebbe a sollevarli (!). Mi dicono che potrò tornare a casa due giorni dopo, ed io già pianifico una prova con il gruppo. Si, bravo. Invece comincio a rimettere sangue. Prendo un sacco di plastica, e ogni tanto appoggio la testa sul cuscino. Ma dura poco: ogni due minuti devo risollevarmi per rimettere altro sangue, mentre il mio vicino di letto (un anziano) mi porge il rotolone di carta per pulirmi. Solo che sembra non finire mai. Vado in bagno, ma alla fine devo chiamare il vicino, perché mi aiuti. Naturalmente le porte degli ospedali non possono essere chiuse dall’interno, nel caso qualcuno dovesse avere problemi, e ritrovarsi chiuso dentro. Nel caso specifico quel “qualcuno” sono io. Il compagno di stanza mi aiuta a sollevarmi, ma non riesco a rimanere in piedi. Questa volta sembro davvero un “sacco di patate”. Vuoto, però. Durante il mio primo ricovero ero svenuto (prima volta della mia vita) mentre mi facevano una radiografia, una lastra, o non ricordo cosa. Dovevo stare solo in piedi, reggendomi con le mani su dei pomelli, mentre i medici “in sala regia” mi facevano una specie di foto all’addome. Ma avevo sentito subito che non avrei resistito più di qualche secondo. L’immagine successiva che ricordo è quella di me per terra, con dottori ed infermieri tutti attorno a me. L’infermiere che mi aveva portato fin là con la sedia a rotelle (per fare prima) assicura che, vedendomi crollare, sono accorsi facendo in tempo a non farmi battere la testa sul pavimento. Ma io ho la sgradevole sensazione di averla sbattuta comunque. Adesso, in bagno, ho la stessa sensazione, non riesco a stare in piedi, mi sento svuotato, sto andando giù. Arrivano gli infermieri, con il solito Enzo in maglietta nera, mi sorreggono e mi sdraiano sul letto. A quel punto sto già molto meglio. Si, non desideravo altro. Ma ricomincio a rimettere sangue. E’ strano, mi piace il colore rosso vivido di questo sangue che sgorga a fiotti, sono sereno, non sento niente. Reclino la testa sul lato sinistro, mi mettono dei tovaglioli di carta sulla spalla, ma non serve a niente: sto vomitando un fiume di sangue a getto continuo, sto inondando il pavimento della stanza: qualcuno dovrebbe procurare delle scialuppe di salvataggio, siamo sul Titanic. Enzo mi dice di non addormentarmi. Gli chiedo per quale motivo, dal momento che così mi risparmierei almeno un po’ di questo brutto momento. Ma lui insiste, e mi chiede di parlargli: ”Parlami, Giuseppe, parlami, dimmi qualcosa, quello che ti passa per la testa”. Mi sembra di intuire che, se dovessi addormentarmi, potrei non risvegliarmi più. E così dico qualcosa, anche se gli argomenti per un amabile conversazione, arrivati a quel punto, sembrano terribilmente scarseggiare. Sono nel letto d’ospedale a rimettere sangue, con la testa rivolta da una parte. Linda, l’infermiera collega di Enzo, all’inizio tenta di raccogliere quel flusso rosso continuo. Poi rinuncia, dal momento che quello non accenna a smettere. Si sta allagando tutta la stanza, e più che una bacinella od uno straccio, servirebbe una scialuppa di salvataggio. Ora sono sdraiato sopra una barella, mentre infermieri e dottori corrono tutti, portandomi non so dove. A fare una tac, credo, ma i miei ricordi non sono chiari. Vedo i cerchi delle luci sul soffitto del corridoio scorrere sopra di me: sembra di essere alla fine del film “Carlito’s Way”, dove Al Pacino in una situazione molto simile, ripensa agli ultimi avvenimenti della sua vita, per l’ultima volta. Ma non capisco lo stesso il motivo di tanta concitazione: non mi sento male. Ho sempre preferito vedere calma intorno a me. E qui invece, dottori ed infermieri che mi trasportano il più velocemente, le flebo si muovono oscillando, le parole sono concitate. Sto forse morendo? Penso: ok, purchè si faccia piano, senza tutto questo chiasso! Qui finiscono i miei ricordi da persona cosciente di sé ed entro nel tunnel senza tempo del coma. Durerà un mese, tra maggio e giugno 2012. Ma io non so niente. Non so nemmeno di essere di nuovo in sala rianimazione. Ho barba e capelli ormai lunghissimi, e alla fine mi sbarbano e mi radono a zero. Ma non ho nessuna memoria di questo: non so chi sia stato, come e quando. Mi racconteranno anche che i miei riceveranno una telefonata, per sentirsi chiedere se acconsentono a questa mia “tosatura”. Figuriamoci, una chiamata dalla sala rianimazione, mentre non si sa se ne uscirò vivo o morto: papà e mamma rischieranno un infarto. Nel frattempo io non ci sono: settimane di nulla, a galleggiare tra sogni ed incubi, vita e non vita. Nella mia mente l’ospedale è montato sopra una chiatta che attraversa lo Stretto, da Messina a Reggio Calabria e viceversa, in continuazione. Non si sa per quale motivo. Ci sono sopra le attrezzature sanitarie, i letti, i dottori, gli infermieri, ma anche grandi videogiochi, tipo quelli di una volta, per i figli dei degenti. E’ come una stramba via di mezzo tra una nave ospedale ed una nave da crociera. Ogni tanto colgo delle figure reali, infermiere o infermieri, che si trasfigurano nel mio dormire in personaggi diversi, che popolano questo mondo a parte, che esiste solo nella mia testa, e che non posso controllare. Il mio amico Roberto mi fa ascoltare musica in cuffia, ma io non sento niente. Non ci sono proprio. Ho chiuso con tutto e con tutti. Ad un certo punto, come verrò a sapere in seguito, lui, che mi è sempre accanto, chiederà agli amici stretti e agli ex compagni di liceo di pregare tutti insieme per me: ho raggiunto una fase critica, sono sopravvenuti altri problemi, compresa una febbre altissima. Me ne sto andando.
Si sparge la voce,via telefonate, via Facebook. Tutti pregano. Io sono in un altro mondo, eppure il mio corpo vuole proprio rimanere in questo, non vuole saperne di lasciarlo. Poi avverrà un miracolo. Un vero miracolo. Esco dal coma. Ma non del tutto. Nella sala rianimazione mi trovo in una stanza a parte, rispetto agli altri degenti. Un po’ perché sono il più grave; forse anche perché sono il più giovane. Intorno a me, solo respiri nel silenzio. Ho la sgradevole impressione di essere circondato da malati in fase terminale. Senza realizzare bene che anche io sono uno di loro. Quando ho bisogno di qualcosa, è un grosso problema, perché non si vede nessuno. Per lo meno, non dal mio letto. E neanche riesco a pronunciare una parola, ad emettere un suono, per richiamare l’attenzione di qualcuno: ho avuto un tubo in gola per respirare (anche se questo è un particolare che non ricordo per niente), e dunque ho perso la voce. Per farmi notare posso solo sollevare un braccio, se intravedo un qualunque essere deambulante. Mi piacerebbe avere qualcosa da sbattere, per farmi sentire, ma non ho niente di niente. E sono quasi del tutto immobile. Non riesco neanche a tirarmi su le lenzuola, quando sento freddo per via dell’aria condizionata; il mio sogno sarebbe riuscire a girarmi su un fianco, ma mi sento come un bambolotto inchiodato, avvitato contro il letto: posso stare solo a pancia in su. Riesco a farmi capire un po’ solo con il labiale. Ma certi giorni c’è un’infermiera che non capisce nulla di quel che cerco di esprimere. A parte il fatto che chiunque, in quelle condizioni, non potrebbe che chiedere le solite cose (un po’ d’acqua, o cose del genere), lei segue il mio labiale, e ripete cose surreali: magari che ho la necessità urgente di andare sulla luna a cavallo di un ornitorinco, tanto per dire. In rianimazione di solito viene a trovarmi papà: può farlo una sola volta al giorno, con camice e cuffia verdi, sempre sorridente. Mamma spesso deve rimanere fuori, e può solo guardarmi da una finestrella. Quando mi vede per la prima volta con il cranio rasato, le ricordo mio fratello Alessio. Di frequente viene anche mio zio Carlo (il fratello più piccolo di mio padre), direttamente da Bronte: tutto quel viaggio, solo per guardarmi da quella minuscola finestrella! E’ stato lui, quando era un capellone barbuto (ed io un ragazzino) a farmi conoscere i Doors e i Jethro Tull, e ad insegnarmi i primi accordi di chitarra. Quando loro sono alla finestra, possono vedermi solo di spalle. E per permettermi di salutarli con la mano, papà deve mettere davanti a me un piccolo specchio. E’ così che scopro di avere i capelli rasati a zero, il volto smunto e gli occhi di fuori. Insomma, di avere l’aspetto di un detenuto in un campo di concentramento! Qualche volta, possono entrare mamma, Alessio o lo zio, al posto di papà. Ad Alessio chiedo di portarmi un libro (“Io sono Ozzy”) che è a casa, nella mia stanza: ma scopro presto di non essere in grado di sfogliare le pagine, neanche una ed è sempre ad Alessio (architetto, nonché batterista dei Malibran dal 1988) che tutti telefonano per avere mie notizie. Mentre sono in quelle condizioni, lui si avvilisce non meno dei miei genitori: si trascura, dimagrisce (nonostante sia sempre andato in palestra a fare “body building”), si lascia crescere la barba. Un infermiere napoletano, Luigi, mi aiuta moltissimo, e gli devo tanto. E anche lui risentirò qualche anno dopo su Facebook.
Stranamente, quando sono in quell’altro mondo, sogno lui che mi fa la doccia spruzzandomi addosso acqua gelata con un tubo di gomma, mentre io mi rannicchio completamente nudo sopra una roccia, sperando che giunga presto il momento di essere avvolto in un morbido accappatoio (!?). Un altro aiuto mi viene amorevolmente offerto da Fiammetta: in realtà lei si occupa dei bambini, in un altro reparto. Ma suo marito, medico e chitarrista del gruppo “Metatrone”, mi conosce. E quando lei gli parla di me, lui fa: “Ah, Peppe dei Malibran!”. Così passa a trovarmi spesso, mi parla, e qualche volta mi porta pure il gelato. In seguito ci risentiremo anche con lei su Facebook, quando sarò finalmente a casa (ebbene si: poi sono sopravvissuto!): io non ero neanche certo se me la ero sognata, Fiammetta, oppure no; e invece lei mi scrive: “Ma ti ricordi tutto!”, si rincuora, a vedermi (tanto tempo dopo) sul pc, con un aspetto decisamente migliore. Un suo collega dice che sono “bellissimo!”. In effetti per lei è molto frustrante prodigarsi tanto, e poi non riuscire a salvare le vite che accudisce. Soprattutto lei, che si occupa di bambini. Così ha quasi l’impressione di impegnarsi per niente. Vedere coi propri occhi che io ne sono venuto fuori, invece, sarà per lei motivo di enorme felicità e gratificazione. Addirittura verrà a vedermi suonare (per quanto io sia sulla sedia a rotelle), con il marito ed i colleghi della rianimazione.
E sono io a rianimare loro, dal momento che mi vedono vitale, felice e completamente preso dalla musica. Come se non fosse successo niente (anche se non suono certo con la scioltezza di un tempo). Durante il coma (o mentre sono un po’ di qua e un po’ di là) la figlia del comandante-primario della surreale nave-ospedale è una ragazza che si chiama Federica. Io non riesco mai a ricordarmi questo nome (non chiedetemi perché), e per riuscirci utilizzo sempre un “escamotage”: penso a quella che immagino potrebbe essere l’etimologia latina del nome: tradotto in italiano, “ricca di fede”. E da qui, ecco Federica! E’ anche un tipo che mi piace, occhi blu e capelli lunghi neri. A volte è un’amazzone a cavallo. Però scompare sempre, non si vede mai. Inoltre, nella veste di figlia del “comandante”, è fidanzata con un giovane medico che è a bordo. Il padre però è contrario, e i due sono sempre lontani l’uno dall’altra, ai due lati opposti della nave. Anche queste due persone sono reali, intraviste in un momento di veglia, accanto al mio letto, per poi “infiltrarsi” nel film che inconsciamente sto girando nella mia testa.
… continua …

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