The Magical Hospital tour 3° di G. Scaravilli

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… Alla fine mi riportano su, in reparto, sempre al quinto piano. Sono lucido, ma praticamente immobile. Non vedo l’ora, e dunque rifiuto l’ultima visita di fisioterapia che stavano per farmi, perché voglio salire al più presto. Solo che mi ritrovo in una stanza singola, con la TV che neanche funziona. Viceversa, dopo tanta solitudine, avrei voluto tornare in una stanza (magari la stessa di prima) con almeno altre due persone, sentire qualcuno parlare. Ed avere anche dei compagni di stanza (al di là degli infermieri) a cui poter chiedere di porgermi questo o quello, dal momento che da solo non riesco a prendere niente. Ancora non lo so, ma purtroppo sono uscito dal coma con una lesione al cervelletto. Di qui, a parte lo stare a letto per un tempo lunghissimo, i tremori alle mani e l’impossibilità di alzarmi. Papà e mamma sembrano contenti della stanza, dicono che si vedono gli alberi dalla finestra. Ma io non sono in grado di vederli, questi alberi, questo verde. E quando rimango solo, combino pure un guaio: muovendo male le mani, faccio rovesciare la bottiglietta d’acqua (senza tappo) sul ripiano che fa da comodino, accanto al letto. Ed il mio telefonino, che è lì sopra, annega miseramente in quest’acqua. Mi basterebbe tirarlo fuori con due dita, ma non ci riesco.
Rubrica, messaggi, tutto può andare perduto, e non riesco a fare niente. Il campanello per chiamare gli infermieri sembra non funzionare: non arriva nessuno, si accende solo la luce. Chiamo il solito Enzo con tutta la voce che ho (stranamente mi viene fuori), ma la porta è chiusa, la stanza è in un corridoio deserto, e mi metto a piangere di rabbia. Perché capisco proprio in quel momento che non sono autonomo, che non posso rimanere da solo. Per fortuna dopo un po’ arriva un infermiere, che tira fuori il cellulare dall’ acqua e asciuga tutto. Era venuto per conto suo, non perché avesse sentito suonare: ero io che non avevo individuato il pulsante giusto, abilmente nascosto alla base del pomello coi vari tasti!
Quando mamma e papà ritornano nel tardo pomeriggio, decidono di rimanere con me una notte ciascuno, dormendo sulla poltrona allungabile (e certo non comodissima) che è lì. Lui smonta il telefonino e, asciugandolo a lungo con un phon, riesce insperatamente a salvarlo. All’inizio sembra di no, ma poi riprende a funzionare. Così portano una piccola tv da casa, e continuano a venire a trovarmi di giorno. Poi uno di loro si trattiene anche di notte. Anche se, non avendo più il pancreas, ho ormai il diabete a vita, mi faccio portare spesso un ghiacciolo: riscopro quello al gusto Coca-Cola, del quale avevo dimenticato l’esistenza. Oppure mi accontento di quello al limone. Non assaggiavo più ghiaccioli da decenni, ma è estate, e ho bisogno di qualcosa che mi rinfreschi, e mi tiri un po’ su. Ho una tosse violenta, e, soprattutto di notte, ho bisogno di qualcuno che mi porga un tovagliolo di carta. In questo mio padre è sorprendente: nonostante stia dormendo aggrovigliato su quella stupida poltrona, con un guizzo si alza e in un secondo è già da me.
La sera ci addormentiamo presto, e dunque, quando ci svegliamo, di solito è ancora buio: accendiamo la tv e seguiamo il TG di Rai News 24. Solo qualche volta mi sveglio con la luce del giorno, e quasi non mi pare vero. Io in ogni caso io non sono in grado di utilizzare il telecomando, non essendo in grado di premere un solo tasto!
Ogni tanto viene un fisioterapista (che si fa chiamare “Pablo”): prova a farmi almeno sedere sul letto. Ma non ci riesco, per me è una fatica immane, tremo tutto e devo sdraiarmi di nuovo, spossato, come se avessi appena scalato l’Himalaya! Sempre all’ ospedale apprendo dai TG della scomparsa di Jon Lord, tastierista dei Deep Purple: dovrei pensare alla mia vita, al momento, ma è una notizia che mi addolora profondamente. Per non parlare poi, di quella di Francesco Di Giacomo del Banco, della quale apprenderò quando sarò tornato a casa.
Si parla di trasferirmi in elicottero ad un centro per neuro-lesi che si trova a Messina. E’ una cosa della quale i dottori discutono davvero con mio padre, ma io, ancora tra post-coma, sonno e veglia, trasfiguro tutto ed immagino che mi portino con un grande elicottero in un posto bellissimo: è riservato solo ad un “elite” di ragazzi (e io che c’entro?), le stanze sono singole, ed ognuna ha la sua TV con un braccio mobile che consente di metterla alla distanza che si preferisce (!). Inoltre si gioca fuori a pallone, passandosi la palla su collinette verdi: ma, a ripensarci, come sarebbe possibile palleggiare su un terreno non pianeggiante? E come farlo, se non riusciamo neanche a camminare, e siamo lì proprio per questo? Mistero. Inoltre, visto che all’ospedale riesco a stare sdraiato solo sulla schiena, sogno che in questo posto mi mettano subito a letto con la pancia sul materasso, e che poi mi coprano. Non chiederei di meglio, sul serio! Il bello è che non siamo neanche a Messina, bensì in Svizzera (?), con un bel freschetto che mi rigenera.
Dopo i mesi trascorsi al Garibaldi mi sposto in ambulanza al Centro “Villa Sofia” di Acireale. Ma non mi trovo a mio agio, e rimango lì solo quattro giorni. Non funziona la TV, l’atmosfera è grigia, ed ho pure un vicino di letto, anziano, che di tanto in tanto lancia urla fortissime: senza motivo, così, tanto per gradire. Come speravo, vengo spostato al “Calaciura” di Biancavilla, che è tutt’altra cosa: sembra quasi un Hotel a 5 stelle, le infermiere sono attente, giovani e graziose, le fisioterapiste pure, gli infermieri simpatici e l’ambiente luminoso.
Inoltre è molto più vicino casa! A Biancavilla avevo visto suonare la PFM (Franz Di Cioccio mi aveva richiesto anche le riprese che avevo fatto da sotto il palco) e inseguito Franco Battiato. Naturalmente avrei mai pensato di doverci tornare in ambulanza, per passarci due mesi a letto; ma non ho ragione di lamentarmi: come detto, la struttura è accogliente. Io ho solo un “vicino di letto”, che cambia periodicamente (prima due giovani, poi due anziani), man mano che viene spostato o dimesso. Ma mi trovo bene con tutti. E detengo anche il possesso del telecomando, per guardare in televisione quello che preferisco. Praticamente tutto il giorno!
Non mi va di leggere, né (udite, udite!) di ascoltare musica con il piccolo lettore mp3. E questo per i miei, che mi conoscono bene, è fonte di notevole preoccupazione. Se tento di girarmi di lato sul letto, a parte la fatica immane, le gambe mi si tendono pure “a molla”, senza che io possa controllarle, ed i piedi nudi vanno a shiantarsi contro le barre metalliche ai piedi del letto, facendomi un bel male. Per fare la fisioterapia si scende in palestra un’ora di mattina ed un’altra di pomeriggio. Ma io sono uno scheletro quasi immobile, e non posso fare granchè, a parte il lettino e lo “Standing” (un affare che ti fa stare in piedi, immobile). A seguirmi sono di più Daniela e Valentina. Il problema, però, è già “ab origine”: essere cioè tirato su dal letto per il trasferimento sulla sedia a rotelle: a quel punto, quando le ragazze mi mettono a sedere sul letto (sollevandomi la testa dal cuscino), partono i tremori (le clonìe) a tutto spiano, e sgambetto come una marionetta impazzita (sono io stesso a definirmi così), rifilando calcioni ad ogni sfortunato essere umano che abbia la sfortuna di trovarsi nelle immediate vicinanze. Il tutto dura circa un minuto, ma qualcuno deve piantarmi bene i piedi a terra, come se volesse conficcarli nel pavimento. Solo allora mi calmo, ed è possibile farmi passare sulla carrozzina.
A quel punto, anche una sola fisioterapista è in grado di prelevare più “degenti” (età media 90 anni) e di accatastarli tutti nell’ascensore, per scendere a fare fisioterapia. E di solito uno di loro, sulla sua sedia a rotelle, viene abilmente utilizzato per tenere aperta la porta dell’ascensore, così da fare entrare tutti gli altri! La palestra è ampia, e anche se io sono uno dei più giovani, ecco che devo guardare signori e signore in età avanzata fare molto meglio di me: salgono e scendono imperterriti, su e giù per la scaletta, camminano agevolmente con il deambulatore e vanno avanti e indietro alle parallele.
Ma porca miseria! Io fatico anche a rimanere seduto sulla carrozzina, e quando mi spostano per il lettino o lo “Standing” partono di nuovo quelle maledette clonìe, che mi scuotono dai piedi in su. Non riesco neanche a chiudere le mani, che rimangono sempre semi-aperte, tipo artiglio. Altro che riprendere a suonare! Una volta Daniela, cercando di farmi chiudere a forza il pugno, mi fa urlare di dolore, neanche stessero torturandomi durante il regime di Pinochet in Cile. L’amico Ignazio mi porta in stanza la sua chitarra acustica, ma non riesco più a fare una nota: Mano destra e sinistra non si coordinano tra loro, e sono troppo deboli. Avrei tutto in testa, saprei cosa fare, ma il corpo non mi segue. Il mio sogno, dopo aver suonato da una vita le cose più complicate, sarebbe soltanto quello di riuscire a fare un sol maggiore, oppure un re. Quel tempo arriverà, ma, mentre sono ricoverato a Biancavilla (agosto e settembre 2012), è ancora troppo presto. Anche per mangiare mi imboccano come un bambino.
Una volta mi ritrovo per caso davanti ad uno specchio, e mi atterrisco: senza più barba, smunto, con gli occhi e le spalle che sembrano voler venire fuori. Aiuto, meglio evitare gli specchi! A Biancavilla dove trascorrerò gli ultimi due mesi del lungo “tour ospedaliero”, prima di tornare a casa, mi trovo bene, come dicevo, ma non tutto va per il meglio: innanzitutto, se dal letto chiami con il pulsante gli infermieri, qui ti risponde una voce gracchiante al citofono, chiedendoti di cosa hai bisogno.

Ora, voglio dire, se chiamo significa che di qualcosa ho bisogno: che mi chiedi a fare “di cosa”, esattamente? Altrove arrivava l’infermiere e basta. Giustamente. Inoltre, come ti rispondo (e ti spiego), a distanza, quando non riesco nemmeno a parlare? Tra l’altro, se a chiamare è uno dei due pazienti della stanza, di notte, quella voce gracchiante deve necessariamente svegliare anche il compagno di stanza.
Non solo: qualunque sia la tua necessità, rispondono comunque che gli infermieri stanno per arrivare, ma che “devono finire il giro”. Ma quale giro? Se mi è solo andata qualcosa di traverso (dico per dire), e mi serve solo qualcuno che mi batta la mano sulla schiena, devo morire soffocato perché loro devono “finire il giro”? Inoltre non è affatto vero che stanno per arrivare: a volte passano pure dopo tre quarti d’ora. E un mio vicino di letto (un anziano di Bronte) li odia per questo, mandandogliene a dire di tutti i colori. Nell’ultimo periodo accuso forti dolori causati dal catetere: sento che stanno per arrivare, questi dolori, e so già che si placheranno solo quando saranno in grado di praticami l’infiltrazione di non so che cosa, con un siringone spaventoso solo a guardarlo. E il bello è che l’infermiere meno simpatico (uno giovane) mi ripete, petulante, di non gridare. Non gridare? Ma perché, tu pensi che io grido a comando, perché è “chic”, perché è “trendy”, o perché mi fa sentire più importante? “Non gridare”…Cosa significa? Mandami subito qualcuno ad aiutarmi, piuttosto. O no?
Di contro, ci sono due signore (prima una e subito dopo un’altra!), non più presenti a se stesse, che urlano di continuo senza motivo alcuno. Una situazione difficilmente sopportabile, dal momento che non smettono mai. Io fatico a dormire la notte, e quando finalmente ci riesco, ecco che una di loro mi sveglia, strillando a tutta forza, nonostante io faccia chiudere la porta della mia camera, ed abbia pure i tappi per le orecchie (unico motivo per il quale, un tempo, ero al corrente riguardo all’ esistenza delle farmacie). Una volta rispondo a mia volta ad una di loro urlo (cosa che in condizioni “normali” non mi sognerei mai di fare), e le urlo “Stai zitta, stronzaaaa! Zittaaaa!” Ad una persona anziana, e con evidenti problemi: evidentemente sono fuori di testa pure io, e non ne posso più di ospedali, belli o brutti che siano. La palestra, è solo un’ora la mattina ed un’altra il pomeriggio. La domenica neanche quello: niente da fare, niente di niente, se non stare a letto tutto il giorno (e poi, naturalmente, tutta la notte), tra sonno e veglia, indigestione di TV e ascolto del lettore mp3. Durante tutti i pasti vengo sempre imboccato come un bimbo. E così sarà anche per i primi tempi a casa, dove papà e Alessio mi trascineranno ogni volta dal divano della cucina al mio letto prendendomi di peso, per le gambe e per le braccia (allegria!).
A Biancavilla, come già al Garibaldi, vengono a trovarmi amici, parenti ed ex compagni di classe. Tutti dicono di trovarmi molto meglio rispetto alla volta precedente: non posso dunque fare a meno di chiedermi una cosa: come accidenti ero messo “la volta precedente”, dal momento che continuo a non essere certo il ritratto della salute?
Di contro, sia a Catania che a Biancavilla ho sempre la fortuna, come accennato, di ritrovarmi quali compagni di stanza brave persone, che si tratti di giovani o di anziani. Dal momento che ci si trova tutti nella stessa barca, ecco scattare come per incanto la solidarietà reciproca, la gentilezza, la disponibilità. E questo anche coi rispettivi parenti che vengono in visita. Alla fine si fa quasi amicizia. E importa poco che si tratti quasi sempre di gente molto diversa da me o dai miei: nella vita non avrei certo trovato molta intesa con tutta questa variegata umanità. Sarei stato prevenuto: molti provengono da cittadine come Gela o Bronte, e sembrerebbero non avrebbero molto a che spartire con me: parlano dialetti variopinti, in TV prediligono le cose Mediaset che io non guarderei neanche sotto tortura, e cose del genere. Ma le circostanze mi fanno capire che tutto questo non conta niente. Alla fine si rivelano brave persone e basta.

Dal momento che durante il giorno, sempre a letto, mi addormento spesso, la notte dormo poco. E quando mi sveglio è ancora buio. Riesco a scorgere, attraverso il finestrone che è alla mia destra, un pezzo di muro: e la mattina spero sempre di vederlo illuminato dalla prima luce del sole: niente da fare! Sempre lampioni nel buio. In ogni caso, alle 6 fanno già la loro “irruzione” gli infermieri (come già al Garibaldi), puliscono tutto (cateteri, “pappagalli”, ecc.) e si occupano di ognuno di noi: fascia di gomma stretta attorno al braccio per misurare la pressione, controllo della temperatura (se abbiamo febbre oppure no), e tutto il resto. Se devono farmi un prelievo come al solito è un dramma, perché le vene non mi vengono fuori. Non si vedono. A volte qualche infermiere addirittura rinuncia per chiamare qualcuno più esperto: alla fine, a parte il dolore causato dallo stringimento prolungato del laccio emostatico, mi pungono in più punti (tipo pupazzetto per fatture wodoo!), fino a che riescono a tirarmi via un po’ di sangue. Quando riscontrano che ho un po’ di febbre, di mattina o pomeriggio, non ne sono afflitto: è la mia “dispensa” dal dover scendere giù a fare fisioterapia, e la cosa non mi dispiace affatto. Naturalmente non è molto piacevole quando la febbre è molto alta. Per mia scelta in palestra scendo alle 12.00 di mattina e alle 17.00 di pomeriggio. Ma, ogni volta, non vedo l’ora di essere messo di nuovo a letto. Cosa che, ovviamente, non posso fare da solo.
Faccio fatica anche a rimanere più di dieci minuti sulla sedia a rotelle, e, se non arriva qualcuno, chiamo il 7° Cavalleria (cioè gli infermieri), a voce o tramite l’apposito pulsante, perché mi aiutino. Devono anche misurarmi la glicemia tre volte al giorno con il pungi- dito e praticarmi punture di insulina ad ogni pasto. Inoltre, è necessario somministrarmi le varie pillole da buttare giù con l’acqua: una in sostituzione delle funzioni del defunto pancreas, e le altre contro i tremori che allietano la mia giornata non appena provo a muovermi. Ancora non me ne rendo conto, ma tutte queste piccole piacevolezze dovranno accompagnarmi per il resto della vita. Mi sono abituato all’’idea? No, ad essere sinceri.
In Tv seguo anche le fiction e le serie a puntate che “normalmente” detesto: ma non sono normale io, al momento, né lo è la situazione nella quale mi trovo. E dunque mi ritrovo a guardare programmi che, a casa, con il telecomando salterei in mezzo secondo netto. A lavarmi e a cambiarmi pensano le infermiere: come detto sono tutte giovani e carine, e questi involontari “massaggi intimi” dovrebbero anche farmi piacere. Invece non sento niente. Sarà che lo fanno in modo sbrigativo e professionale, pensando già al paziente della prossima stanza; sarà anche colpa delle medicine che prendo, fatto sta che la mia reazione è tristemente prossima allo zero.
Mamma e papà, come al solito, vengono ogni giorno: mi fanno cenare e mi portano fuori (naturalmente sulla sedia a rotelle) a prendere un po’ d’aria. A fine settembre, dopo mesi di ospedale ( faccio in tempo a “visitarne” altri due, uno a Paternò e un altro a Catania: altrimenti, che “Hospital tour” sarebbe?), torno finalmente a casa. In ambulanza, tanto per cambiare. Eppure, anche se mi trovo sdraiato lì dentro, traballante, senza poter vedere fuori (e rivolto pure al contrario rispetto al senso di marcia), riesco a dare indicazioni all’autista per arrivare a destinazione. E non vedo l’ora.
Quando arriviamo, mi piazzano sopra una specie di seggiolino e, salite le scale e attraversati salotto e corridoio, mi adagiano finalmente sul letto. Il mio letto, questa volta, nella mia stanza, tra i miei poster, i miei CD, DVD, libri, TV e tutto il resto. Cominceranno presto anni di riabilitazione, per riprendere (nei limiti del possibile) a camminare, parlare, muovermi, suonare. Ma l’importante è che sono a casa, nella mia camera azzurra, tra le mie cose, con la mia famiglia, e non più tra camici bianchi. Mi scappa una lacrimuccia. Di felicità, questa volta.
Giuseppe Scaravilli, 2015

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